Digital storytelling: sei esempi in cui l’obiettivo non è vendere
Cambiamo prospettiva, per una volta. Hai spesso sentito parlare di digital storytelling come strumento del marketing, come forma di comunicazione attraverso cui le imprese guadagnano visibilità, stabiliscono rapporti di fiducia e vendono. Ma esistono ulteriori orizzonti per la narrazione online.
Sorrido quando a volte sento commentare lo storytelling come un artificio della comunicazione al servizio della vendita. “Basta con questo storytelling!”, mi è capitato di leggere tempo fa sui social (a quell’episodio ho anche dedicato il video che vedi qui sotto), sottostimando una questione: quanto la narrazione sia fondamentale.
Lo storytelling è ben più di una forma di comunicazione legata al marketing: è una tecnologia innata con cui l’Uomo stabilisce relazioni e si fa capire, fin dalla notte dei tempi.
Senz’altro l’avvento del web e dei social media ha offerto alla narrazione modalità d’applicazione mai viste prima, ma davvero la vendita di prodotti o servizi – ed il profitto conseguente – è il solo obiettivo perseguibile? La risposta è “No”. Anzi dirò di più.
Non si fa storytelling per vendere, ma per creare condizioni di riconoscibilità e reputazione.
Da visibilità e reputazione può senz’altro trarre giovamento la vendita. Ma l’effetto di una narrazione online strutturata è un clima di cui chiunque può beneficiare, ben oltre lo stretto ambito del profitto derivante dalla cessione di beni o servizi. Per dimostrartelo ho voluto esplorare, con una serie di esempi, alcuni tra i campi d’utilizzo del digital storytelling in cui la vendita non sia contemplata, o comunque svolga un ruolo secondario.
Mettiti nei panni di un recruiter alla ricerca di profili professionali da inserire nell’organico aziendale. Oppure in quelli di un HR, un responsabile delle risorse umane, tra i cui interessi c’è l’offrire un’esperienza lavorativa gratificante al personale.
Chiediti: quanto beneficerebbe il loro lavoro se fossero noti sia al mercato, sia alle persone che lavorano in azienda l’identità, la storia e i valori del marchio per cui recruiter ed HR operano?
Employer branding. Così viene definito, non a caso, il fenomeno dell’essere essere brand in funzione dell’impiego, un’espressione del marketing legata allo spirito di appartenenza dei collaboratori e l’essere attrattivi per i potenziali.
Come alimentare l’identificazione con i principi di un posto di lavoro?
La chiave è quella stessa narrazione della quotidianità dell’impresa di cui spesso scrivo qui nel blog: la condivisione attraverso i canali digitali di momenti, traguardi raggiunti, problemi risolti ai clienti nutre di consapevolezza tutto il mondo che ruota attorno all’impresa.
Mi riferisco perciò non solo ai clienti (attuali o potenziali che siano), ma anche i fornitori, il personale aziendale ed i possibili candidati ad un posizione lavorativa libera.
Così dice Roberta Zantedeschi, esperta di risorse umane: “Trovo che il racconto sia un gesto di generosità, di cura e di attenzione nei confronti di persone di cui si cerca la fiducia e la credibilità. (…) Quanto più autentico è il racconto, più è possibile conoscersi, scegliersi e scegliere quali obiettivi raggiungere”.
Lo storytelling è una strategia sana, purché si nutra di episodi autentici e punti ad una percezione inalterata della realtà. Nell’employer branding diviene strumento di diffusione culturale orientata a un bene collettivo.
Hai presente quando camminando per una via cittadina qualcuno ti ferma per chiederti di contribuire, con una firma o un’offerta, ad una qualche campagna di solidarietà?
Qual è la domanda che ti passa nella mente?
“Posso fidarmi?”.
No, non sei una cattiva persona se la diffidenza è la reazione automatica alla richiesta per una buona causa. È naturale, se non conosci l’interlocutore e l’ente che rappresenta.
L’estraneità – e di conseguenza la scarsa fiducia – è una condizione che attanaglia molte attività del non-profit.
Molta gente ha una percezione vaga di quel mondo di persone che volonterosamente si adoperano a sostegno delle classi deboli o di cause comuni: il cosiddetto terzo settore è un pilastro sociale – spesso nell’ombra – e necessita di denaro per agire.
Il fundraising, ovvero la raccolta fondi in tutte le sue forme, è il processo attraverso cui gran parte del non-profit si sostiene, un meccanismo che richiede visibilità e reputazione per attrarre donazioni.
Sono due condizioni propizie ad un clima di fiducia, tappe di un percorso equiparabile al cosidetto customer journey, il viaggio che un cliente compie prima di una scelta d’acquisto: all’inizio prende conoscenza del brand, poi ne coglie l’identità distintiva, stabilisce una relazione con esso, quindi acquista.
In una strategia di storytelling digitale, la narrazione accompagna il potenziale cliente lungo il tragitto, crea familiarità con il brand e lo rende distinguibile. Lo stesso può accadere nel non-profit, laddove il brand sia una Onlus, ad esempio, ed il cliente un donatore a cui la narrazione riveli difficoltà, conquiste, vicende umane.
Il terzo settore dispone di capitale narrativo possente, ma spesso sottovalutato: acquisirne consapevolezza strategica è il primo passo da compiere per sfruttarne il potenziale.
Esistono forme di violenza legate alla discriminazione sessuale. Talvolta emergono dalle cronache in modo eclatante, quando si tratta di uno stupro o un femminicidio. Ma la violenza di genere è spesso più subdola, se non fisica magari psicologica, e si esprime con atti persecutori domestici, fuori casa oppure online, come lo stalking.
Il problema è radicato all’interno di comportamenti quotidiani reiterati: atteggiamenti possessivi nelle relazioni, sessismo sul posto di lavoro o molestie in pubblico, spesso depotenziate della loro lenta forza distruttiva da un ambiente accondiscente.
Si tratta di fenomeni che generano nelle vittime conflitti e disagi: quante donne hanno paura di denunciare o, peggio ancora, sono convinte di meritare le violenze?
Ogni giorno gli operatori dei centri anti-violenza e dei servizi sociali raccolgono raccappriccianti storie di violenze e abusi domestici. Il racconto che avviene, in forma confidenziale e protetta, è un momento terapeutico, un atto liberatorio che aiuta le vittime a ritrovare un equilibrio e ad avere un aiuto.
E poi ci sono anche le storie a lieto fine, quelle di chi ha combattuto e vinto il mostro. Organizzarle e renderle pubbliche – pur nella tutela della privacy – aiuterebbe altre vittime a sentirsi meno sole, a ritrovare l’autostima e il coraggio di esistere. Non solo: offrirebbe un importante apporto ad una più estesa consapevolezza sociale.
Vedo insomma nello storytelling – organizzato e diffuso con i canali digitali – una possibile strategia oppositiva, una scelta capace di scardinare chiusura e pregiudizio, terreno fertile per le violenze di genere.
Non è un caso che la parola impresa si presti ad una doppia chiave di lettura. C’è qualcosa di eroico – epico, persino – nella natura di chi imprende: è la visione di un futuro ancora non scritto. Smuove all’avvio, sostiene lungo un percorso spesso ostile, conduce al traguardo. Come accade agli eroi nelle storie migliori.
Ho vissuto con entusiasmo l’avventura lanciata tempo fa dalla Camera di commercio di Torino: sono stato per alcuni giorni tra i mentor di un gruppo di imprese e aspiranti imprenditori aderenti al programma Oncrowd. L’iniziativa era finalizzata all’orientamento sul crowdfunding e l’esperienza mi ha aperto gli occhi su un’ulteriore applicazione della narrazione digitale.
Cos’è il crowdfunding? È una forma di raccolta fondi finalizzata a sostenere un progetto. Nel mondo delle imprese esistono piattaforme ed eventi attraverso cui trovare possibili finanziatori, con iniziative che prevedano differenti tipologie di ritorno per l’investitore:
- Reward Crowdfunding, quando al finanziatore è riservata una ricompensa (i reward) in funzione dell’entità dell’importo donato.
- Equity Crowdfunding, quando alla donazione corrispondono delle quote societarie.
- Lending Crowdfunding (o Social Lending), quando la richiesta è un prestito ripartito tra più sottoscrittori.
Quanto sia percorribile la strada del crowdfunding lo dicono i numeri. Secondo i dati dell’Osservatorio di Crowdinvesting del Politecnico di Milano, il successo medio di campagne di raccolta fondi è pari al 75%. Altri studi attestano la percentuale di successo attorno al 50%.
In ogni caso si può essere ottimisti, ma a due condizioni: avere un progetto solido dal punto di vista commerciale e finanziario, e saperlo valorizzare. Devi persuadere qualcuno che ancora non ti conosce e spesso disponi di pochi attimi per aiutarlo a immaginare l’impatto sul mercato della tua idea.
Usare lo storytelling semplifica il processo espositivo, rende comprensibile il progetto e sostiene la credibilità del proponente.
Negli incontri con le imprese del programma Oncrowd ho più volte sollecitato imprenditori e aspiranti tali a scavare nelle loro esperienze personali, a far emergere – con il racconto – i valori e l’identità dei loro progetti.
Ho trovato appassionante osservare progetti d’impresa, dapprima allo stadio embrionale, prendere forme via via più limpide, mettendo a fuoco le rispettive promesse di valore.
Ricordo le parole di una giovane designer, ideatrice di giochi per l’infanzia: “Vorrei che tutti i bambini possano giocare assieme, senza i limiti di una qualsiasi disabilità”.
Senza giri di parole, aveva individuato un problema – sul mercato esistono pochi giochi totalmente inclusivi – e si apprestava a proporre la propria soluzione.
Un esempio di presentazione tra le tante a cui la narrazione di sé aveva infuso concretezza: una traccia che il narratore può arricchire di aneddoti e trasporre sui canali digitali.
“Tutti noi abbiamo una storia da raccontare. A noi stessi per primi. La scrittura autobiografica offre a molti la strada per riconsiderare le scelte passate, comprendere le motivazioni di errori che non vorremmo più ripetere, riconoscere chi siamo stati e capire chi vorremmo essere”.
A dirlo è Elvira Gaudiano, amica e ghostwriter (c’è un po’ del suo lavoro nell’articolo che stai leggendo) a cui ho chiesto una testimonianza: “Usare la scrittura per raccontarmi nell’intimo di un diario mi ha fatto capire che le nostre vite sono palcoscenici su cui dare forma al futuro”.
In altre parole, raccontare la propria storia non solo risveglia esperienze e sentimenti, ma aiuta chi narra a capire la propria personalità, accettarla e, dove necessario, rimodellarla.
Quale effetto avrebbe quello stesso racconto se diventasse pubblico sulle piattaforme digitali? Porterebbe chi osserva alla medesima consapevolezza circa l’identità di chi narra.
È il principio su cui si basa una disciplina del marketing chiamata personal branding, un complesso di strategie atte alla promozione personale, delle proprie competenze e qualità, alla stregua di un qualunque brand.
Usare lo storytellling digitale per dare visibilità a sé stessi sortisce effetti sulla reputazione e le relazioni.
Le casistiche di applicazione sono perciò molte.
Può trarne giovamento ad esempio…
… il freelance o il commerciale nella ricerca di opportunità di vendita;
… l’imprenditore o il responsabile acquisti per rafforzare le rispettive posizioni negoziali;
… chi è alla ricerca di un nuovo lavoro o ambisce ad uno scatto di carriera;
… chi desidera allargare la cerchia di relazioni professionali e scambiare informazioni e impressioni.
Insomma, tante sono le situazioni in cui pensare a sé stessi come a prodotti sul mercato – e raccontarsi di conseguenza – assume un ruolo strategico. Ognuno dispone del propellente necessario: le storie. Usarle non costa nulla e porta tanti vantaggi.
Lo storytelling, come hai visto finora, è l’arte di saper raccontare storie secondo obiettivi diversificati, ma cosa può indurre un politico, in campagna elettorale, a considerare le tecniche narrative? Non è sufficiente presentare un programma che risponda ai problemi contingenti del Paese per attrarre voti?
Evidentemente no.
Se si desidera che le persone riconoscano i valori e le idee, è quanto mai importante farsi capire e stabilire legami empatici. Ed è l’effetto di una buona narrazione.
Uno storytelling politico non s’improvvisa: servono tecnica ed esempi concreti che sappiano ispirare e spingere al voto, diffusi ai comizi e nei luoghi digitali.
Come nel 2008 fece Barack Obama. La sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti segna, secondo molti, il punto d’inizio dello storytelling politico, perlomeno nei territori digitali. Con lo slogan “Yes, we can”, infiammò le folle portando il suo esempio: un giovane di origini afro-americano che aveva scalato le gerarchie sociali fino al gradino più alto della nazione.
Anni più tardi, lo stesso Obama, a proposito di storytelling disse:
“Abbiamo tutti una storia sacra in noi. Ci dà significato e scopo nel modo in cui organizziamo le nostre vite. Se conosci qualcuno, se parli faccia a faccia, se riesci a stabilire una connessione, potresti non essere d’accordo su tutto, ma le storie sono il terreno comune da cui partire per poi andare avanti insieme”.
Una buona narrazione – anche fuori dallo stretto momento elettorale – stabilisce un patto tra elettore e candidato. Le storie sono il punto di contatto, sta poi alla politica la responsabilità della promessa.
Quando scrissi Raccontarsi online, libro pubblicato da Hoepli, avevo in mente professionisti e imprese. Quegli stessi metodi descritti nel manuale ben si prestano, però, ad ognuno degli utilizzi strategici descritti in questo articolo.
Le 240 pagine accompagnano il lettore nella messa a punto di un progetto di comunicazione fondato sulla narrazione e affidato al web. Un ampio capitolo si sofferma sulle tecniche della scrittura e la creazione di contenuti. E poi spazio a testimonianze e casi studio per prendere maggior dimesticazza con le logiche del fare storytelling digitale.
Conclusioni
Alle forme di utilizzo fin qui elencate, ad onor del vero, se ne dovrebbero aggiungere altre. Per esempio lo storytelling museale e lo storytelling didattico, finalizzati al coinvolgimento e all’apprendimento. Ma gli esempi fin qui menzionati penso abbiano dato sufficienti indicazioni per comprendere: attraversando i mondi del digital storytelling avrai percepito quanto il potere narrativo possa migliorare la vita delle persone, qualsiasi sia il loro obiettivo. Anche quando non c’è un prodotto da comprare o vendere.
Mai come oggi disponiamo di mezzi straordinari con cui comunicare e tecnologie antiche – come la narrazione – per andare oltre alle parole vuote che abbondano nei siti aziendali: innovazione, qualità, tecnologia, servizio, sostenibilità, competenza, professionalità, design, made in Italy.
Vocaboli densi di sostanza, ma spesso privi di una reputazione che le sostenga.
Sbaglia i tempi chi ostenta certe parole; li tradisce la fretta di arrivare nella testa delle persone prima ancora di toccarne il cuore. A nulla serve l’esibire verità, virtù, valori senza che una narrazione abbia imbastito un rapporto. Perché la credibilità non sta nelle parole scelte, ma nei tempi lunghi di un’esperienza che – se non vissuta, almeno percepita – comunichi autenticità e ispiri fiducia.
Sta tutto lì il senso dello storytelling.
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