Storydoing: sentivamo il bisogno di una parola tanto brutta?
Diciamo la verità: ne esistono di parole brutte, di raccapriccianti neologismi che all’improvviso entrano nel linguaggio di molti. Li usiamo con tale noncuranza da non sentirne ormai più la puzza.
Con apericena pensavo avessimo toccato il fondo. Ma oggi c’è di peggio: storydoing.
Quanto stride la congiunzione dei termini story e doing che in tanti, nel mondo della comunicazione, stiamo cavalcando. Sì, mi ci metto anch’io tra i tanti: l’ho fatto e mi pento.
© Foto di Elisa Piemontesi
Cos’è lo storydoing?
Dal punto di vista gergale, nelle intenzioni di chi si occupa di marketing, l’unione dei due vocaboli dovrebbe descrivere una tecnica di narrazione d’impresa, una forma di racconto fondato sul fare, sulla quotidianità del brand: i progetti, le azioni, gli episodi, le persone, i risultati raggiunti. Ma non bastava la parola storytelling per definire tutto ciò?
Sentivamo davvero il bisogno di tradire la parola storytelling?
Storytelling, ovvero raccontare storie. Cosa c’è di più chiaro, coinvolgente, ancestrale? Ho sentito note d’imbarazzo nella voce di tanti addetti ai lavori nel dire storytelling. Concetto abusato, affermano. Forse è questa la ragione del cambio di rotta, dallo storytelling allo storydoing, come se bastasse un’espressione differente per liberarsi dal disagio. Ma non è la parola ad essere sbagliata; l’errore è nell’appropriarsene con leggerezza, senza averne colto il senso. Come tanti fanno.
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C’è pure chi si spinge nel sentenziare: “Lo storytelling è finito, non funziona più”. E si arroga il diritto di far partire i titoli di coda.
No, dico, a qualcuno verrebbe mai in mente che “Le parole non funzionano più”, “Respirare non funziona più”, “Il sesso non funziona più”?
Come si fa a pensare che il narrare – comportamento tanto naturale, spontaneo, radicato – sia un fenomeno soggetto a ciclicità? Come lo si può trattare alla stregua di un qualsiasi prodotto che arriva sul mercato, raggiunge un apice e poi s’avvia al declino.
L’uomo è un animale narrante: l’hanno detto Andrea Fontana e altri ancora. Viviamo immersi nelle storie, apprendiamo, acquisiamo valori e modelli di comportamento attraverso esse. Prestiamo loro attenzione perché è il nostro modo di misurarci col mondo.
Raccontare è il modo attraverso cui da sempre ci facciamo capire, costruiamo rapporti e vendiamo.
Come può aver fine una cosa così?
Per cui mi chiedo: sentiamo davvero il bisogno di nuove parole quando quelle che abbiamo già brillano di tanto splendore?
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