Fulvio Julita storytelling social media marketing PLUME
Fulvio Julita

Mi occupo di storytelling d’impresa applicato a strategie di marketing digitale. Aiuto le imprese a comunicare meglio, valorizzare la loro identità e vendere. Ho scritto "Raccontarsi online - Dal freelance alle piccole e medie imprese: storytelling per il marketing digitale" (Hoepli editore).

Storytelling e viralità: cosa rende virale una storia

Non tutte le storie sono uguali. Alcune, più di altre, catturano l’attenzione, generano emozione, si diffondono, fuori e dentro Internet. Lo sanno bene i giornalisti al cui mestiere appartiene il concetto di notiziabilità, il primo scoglio da superare affinché una storia diventi virale.

storytelling virale
Foto di Lorenzo Lucca ed Elisa Piemontesi

La viralità delle storie è un fenomeno difficile da afferrare, soprattutto da pianificare a tavolino.
Chiunque si occupi di storytelling in Rete – utilizzi cioè la narrazione online per dare visibilità ad un’impresa – conosce la frustrazione di certi numeri che non sono quelli a cui aspira e, forse, merita. Puoi dare alle storie forme opportune, seguire alla regola i fondamenti che tanti pensatori – da Aristotele in poi – hanno esplicitato, ma quando poi le affidi al loro destino sul web, intervengono fattori incontrollabili che ne determinano o meno il successo:

  • non puoi controllare gli algoritmi del web che sui social e i motori di ricerca stabiliscono cosa sia degno di nota;
  • non puoi controllare i concorrenti e la loro produzione di contenuti che crea inevitabile competizione;
  • non puoi controllare le circostanze contingenti che rendono, in un preciso momento, un contenuto più o meno interessante.

Ciononostante, se racconti online il tuo lavoro, è legittimo – anzi necessario – aver la consapevolezza di quali siano gli ingredienti comuni ai contenuti diventati virali online.
A tal proposito, ritengo sia utile sbirciare la tradizione giornalistica nei cui ambienti è stato forgiato il concetto di notiziabilità.

LEGGI O ASCOLTA. Questo articolo è disponibile anche in EROI | Un podcast che parla di storytelling e imprese da raccontare.

Notiziabilità, cosa significa

Il termine notiziabile si riferisce all’insieme di requisiti che rendono un evento adeguato a diventare notizia. Così la definisce Antonio Preziosi, giornalista, saggista e direttore di Rai Parlamento:

“È l’idoneità di un fatto a trasformarsi in notizia. Si tratta di un neologismo che proviene dal sostantivo inglese newsworthiness (dignità di notizia, capacità di valere come notizia) ed è frutto della elaborazione teorica dei sociologi della comunicazione americani che, analizzando l’esperienza concreta, hanno coniato l’aggettivo tecnico newsworthy (notiziabile)”.
Tratto da La Comunicazione – Dizionario di scienze e tecniche

Una storia è notiziabile – quindi degna di trovar spazio tra le pagine di un giornale o le notizie di un TG – se vi è una coincidenza di caratteristiche tali da renderla di potenziale interesse per il pubblico.

Criteri di notiziabilità, quali sono

Quali criteri determinano la notiziabilità di un evento? Antonio Preziosi ne indica cinque:

Il tempo o l’attualità del fatto.
“Più un fatto è attuale e più è notiziabile. Tale criterio riguarda l’immediatezza nel tempo di un fatto o la novità dell’accadimento”.

Il pubblico interesse.
“Più è esteso il numero di persone interessate a un fatto, più quel fatto avrà notiziabilità. Il pubblico interesse porta con sé una forte componente psicologica. Una delle riflessioni che evoca la notizia è infatti il cosiddetto moto di umanità: la compassione, la solidarietà e il pensiero poteva capitare anche a me”.

La vicinanza fisica.
“Ha più notiziabilità un fatto avvenuto in un posto geograficamente vicino che non in una landa sperduta e lontana”.

L’importanza dei protagonisti.
“(…) le azioni delle élite sono ritenute più cariche di conseguenze per tutti. Inoltre i loro stati d’animo e le loro esperienze di vita (amori, tradimenti, matrimoni, lutti, ecc.) possono produrre sulla gente comune effetti di identificazione”.

L’inusualità.
“La singolarità di un evento, la sua originalità e il suo essere insolito suscitano l’interesse dei lettori. È la classica regola dell’uomo che morde un cane (…)”.

Una storia notiziabile può diventare virale

La corrispondenza ad uno o più dei cinque criteri rende un evento eleggibile ad un posto tra le colonne del giornale, ma non è garanzia di attenzione da parte del pubblico, né tantomeno di viralità.

La viralità nasce quando intervengono fattori emotivi che spingono più lettori a dare voce alla notizia e ad alimentare – più o meno consapevolmente – il passaparola attorno ad essa.
Sui social accade attraverso azioni che gli algoritmi considerano indicatori di gradimento: commenti, condivisioni o semplici like vengono interpretati come segnali del valore percepito di un contenuto. Poiché la prerogativa di un social è offrire un’esperienza appagante, la piattaforma tenderà a dare sostegno proprio a quei contenuti che agli utenti sembrano piacere.

Si innesca così un fenomeno che non si può trascurare in una strategia di digital storytelling, un meccanismo perpetuo che è alla base della viralità: gli utenti interagiscono, l’algoritmo registra l’interesse, spinge la visibilità, altri utenti vedono, interagiscono ecc…

La viralità e la ricerca di riprova sociale

C’è un perché della viralità delle storie? Sì, ed è abbastanza evidente. Almeno stando alle conclusioni di un team di ricercatori guidati da Christin Scholz ed Elisa Baek, dell’Università della Pennsylvania, in seguito agli studi resi pubblici dalla rivista scientifica dell’Accademia Americana di Scienza.

Le persone leggono e condividono quel che potrebbe migliorare le loro relazioni, farle sembrare intelligenti, empatiche o semplicemente che le pone in una luce migliore.

Gli studiosi avevano sottoposto due gruppi di volontari ad una serie di test, monitorandone le attività cerebrali. Sono stati così in grado di stabilire una correlazione tra lettura e l’attivazione di specifiche regioni del cervello. Arrivarono addirittura a predire la viralità degli ottanta articoli del New York Times utilizzati negli esperimenti, dei quali i partecipanti hanno potuto leggere riassunti e titoli. 

La riprova sociale è quindi – secondo le neuroscienze – la molla della viralità: attraverso i contenuti che diffondiamo chiediamo l’approvazione degli altri.

Più alto è il coinvolgimento, più probabile è la viralità dello storytelling

Quanto conta la componente emotiva di una storia? Parecchio. Se la storia ci emoziona, lo stimolo a condividerla è più forte.

E, tra le emozioni, quelle negative in genere vincono sulle positive nel catturare l’attenzione.

Lo conferma Francesco Oggiano, autore del libro SociAbility (Piemme editore): “Dietro ad un fatto interessante spesso c’è una delle tre S: sesso, sangue o soldi”, così il giornalista ha dichiarato in un’intervista per il podcast Hacking Creativity. “Diventano più virali le notizie che generano la nostra rabbia e la nostra indignazione rispetto a quelle che suscitano felicità”.

Ragione che spiega il motivo per cui i fatti tragici e scabrosi tengano banco sulle prime pagine dei giornali molto più delle notizie edificanti e positive.

 

Leggi anche: Politica, social media e fake news: perché dovremmo preoccuparci?

 

Il fascino delle vicende negative ha una spiegazione catartica: conoscere i guai altrui aiuta i lettori a superare i propri.

D’altronde è lo stesso principio su cui si fonda il cosiddetto viaggio dell’eroe, il più noto tra i modelli della narrazione, a cui tanta cinematografia hollywoodiana si ispira. La teoria fu elaborata da Chris Vogler, sulla base degli studi di Joseph Campbell.

Secondo la teoria del viaggio dell’eroe, lo storytelling è la descrizione di una sequenza di circostanze che vedono un protagonista (l’eroe), mosso da bisogno o desiderio, affrontare differenti difficoltà fino a giungere cambiato al termine della vicenda narrata.

Il lettore si immedesima nelle difficoltà dell’eroe, si confronta coi suoi tormenti, si misura con la sua capacità di superare le avversità.

Lo storytelling e la ricerca della viralità: conclusioni

Un principio lega le tante questioni che ho voluto affrontare in questo articolo: la viralità si alimenta della naturale propensione umana a trarre benefici dalle circostanze della vita. È la ragione per cui prestiamo attenzione alle storie – in quanto specchio della vita: lo facciamo perché possiamo apprendere qualcosa di nuovo, avere la conferma di qualcosa che sapevamo, arricchirci di un’esperienza emotivamente appagante; le condividiamo per guadagnarci in prestigio sociale.

Ma una storia, perché costituisca un’esperienza emotivamente gratificante, dovrà contenere eventi avversi dosati in un giusto grado di complessità. Sono le sfide dell’eroe, quelle in cui immedesimarsi. Questo vale per qualsiasi forma di narrazione, dalla giornalistica alla cinematografica e – se ci pensi – anche per molti filmati apparentemente sciocchi che appaiono nel feed di TikTok.
La sfida è un requisito essenziale affinché la narrazione funzioni e possibilmente riesca ad emergere tra milioni di contenuti che ogni minuto vengono caricati sul web.

In una strategia di storytelling online, non si potrà mai avere la certezza che un proprio contenuto diventi virale, ma ignorare gli ingredienti della viralità significa precludersene la probabilità.

 

Quali canali e quali contenuti sono necessari per una strategia di digital storytelling? Sono alcune delle domande che trovano risposta nel mio Corso di storytelling, quasi cinque ore di videolezioni con cui apprendere i metodi del raccontarsi online.